Voglio iniziare dalla fine, quando campeggia la scritta Love dietro il muro luminoso che governa la scena del concerto. Perché Love? Perché il vero significato della parola è il mantra di un concerto che sprigiona amore. Amore contro odio, performance contro l’oblio, anche se lo vai a vedere diverse volte. Per me è stata la prima, con i The Flaming Lips che ritornano a Milano dopo 11 mesi, belli carichi e psichedelici al punto giusto.
Colorati e dirompenti, ti accolgono a braccia aperte, dandoti del “cooler” per farti sentire a tuo agio in un Alcatraz che sale di tensione man mano che i minuti passano e i sette ragazzi sul palco cavalcano i capisaldi della loro carriera. Dietro la musica, c’è la performance di un live che richiama bizzarrie alla Monthy Python, un collettivo con cui le affinità si susseguono e le note di colore creano un universo tutto da scoprire.
Wayne Michael Coyne è il condottiero solido che vorresti sempre al tuo fianco, perché non si riposa un attimo e canta come se avesse ancora vent’anni (è del 1961, per intenderci). Gli altri membri della premiata ditta di Oklahoma sono al suo fianco con travestimenti di vario tipo, tra cui spicca il basso di Micahel Ivins, mascherato da operaio post-fordista che legge le tecnocrazie moderne.
Impossibile elencare le magie di un live che vede coriandoli in quantità infinita e palloni colorati che vengono lanciati senza sosta, per farci tornare felicemente bambini, dietro le note di Race for the Prize. L’alternativa psichedelica è viva sin dagli anni ’60, mettendo d’accordo dal vivo vecchi e nuovi amanti della cultura freak e esponenti delle altre controculture (davanti a me sorride un certo Stefano Gilardino, membro culto della cultura punk e autore di tanti bei libri sull’argomento), per una sera insieme sotto al palco dei sempre vivi The Flaming Lips.
Dentro al racconto del live, ecco allora che il pink robot gigante, madre di tutti i presenti, viene gonfiato poco prima di una delle più significative canzoni del gruppo americano, quella Yoshimi Battles the Pink Robots pt. 1 che ci fa ciondolare graziosi, dentro al situazionismo scenico che si affaccia sulla materia dadaista di uno show unico. Milano Fuck yeah, oltre ad una composizione di palloncini, è il motto della serata, che fa rima con la solidità del ritornello Ya ya ya ya ya ya ya ya ya ya ya ya ya ya ya di Yeah Yeah Yeah Song (With All Your Power), brano che ti da forza prima della cavalcata in sella all’unicorno di Micahel (durante l’immortale There Should Be Unicorns) e altri spari di fumo, dietro un impianto led mastodontico.
Che dire poi della poesia di Space Oddity, in cui i nostri The Flaming Lips ringraziano il maestro Bowie rotolando il loro frontman sul pubblico dentro una bolla, poco prima della comparsa dei due cervelli giganti, che fanno il paio con i funghi posti a lato del palco. Un gran lavoro per la sicurezza del locale, una gran bella festa per noi, in un set che lascia il segno nella memoria di ciascuno.
Per chi non c’era stavolta può andare, ma la prossima non transigeremo, né noi, e né (soprattutto) i The Flaming Lips.
Ringraziamo Barley Arts per il graditissimo invito.
Testo di Andrea Alesse e foto a cura di Romano Nunziato
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Andrea Alesse
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