Autore: Amerigo Verardi
Album: Hippie Dixit
Etichetta: The Prisoner Records
Un album profondo e intriso di sonorità differenti ideale per attraversare la nostra coscienza, un autore coraggioso in preda alla sua miglior presa di posizione artistica. Due riflessioni secche e nude su Hippie Dixit, sontuoso doppio disco che in 100 minuti di musica propone una psichedelia oriental-folk densa di contenuti e passione, ma non solo. Una musica che si fa respiro umano, una dinamica artistica ritrovata per Amerigo Verardi, dopo l’album solista Cremlino e Coca, uscito nel lontano 1997, e i lavori rock con i Lotus. Ma c’è chi lo ricorda già con gli Allison Run negli anni ’80, oltre che per il primo epico lavoro in solitudine targato Morgan. Una carriera artistica che gronda sangue e elettrostimolazioni umane, ora di nuovo in gioco per un progetto monstre che si riconosce in una sorta di atto politico: dare fiducia alle viscere della musicalità per abbandonare inutili cattivi gusti legati al junk food musicale.
Ma Verardi non è uno che fa inutili proclami, piuttosto arrangia musiche orientali e declamazioni che propongono poesie oniriche in cui è d’obbligo ritrovarsi per far pace con se stessi, magari a bordo di una scialuppa che salpa dal porto di Brindisi, luogo di nascita del nostro cantautore. La magia dei luoghi che si sposa con le anime dorate di una tradizione musicale in cui echeggiano 14 poesie in note, strutturate per colpire e rimanere sempre vive, anche dopo numerosi ascolti. Hippie Dixit non lo si capisce al primo giro di boa, un po’ per il suo caparbio stile, un po’ per la sua intensità. Volo magico di Claudio Rocchi, dicono, ma anche tanta altra miscela musicale. E quindi spazio a sonorità legate alla world music, field recording, distorsioni e acustica, mentre i testi ricordano i fasti di El Muniria e Emidio Clementi, non a caso scrittore oltre che compositore di note, proprio con Verardi. Un dichiarazione arriva già dal situazionismo del titolo, in cui Hippie Dixit distorce il famoso latinismo di ipse dixit.
E poi si entra nel pieno già con il viaggio de L’uomo di Tangeri, aperto da sonagli rumorosi esoterici e contraddistinto da quel tipico ritmo così narcolettico che spinge l’ascoltatore sin dentro ai caffè marocchini. Ma il tragitto della musica di Verardi non è solo fisico e si spinge in tensioni interiori accompagnate da venature psichedeliche (Terre Promesse) e passaggi che usano percussioni e ritmi tribali per sprigionare vecchi fantasmi (Pietra al collo). Molto riuscito è Due Sicilie, brano che odora a tratti di primi Afterhours, con distorsione progressive di chitarre e lodi al brigantaggio che sorvolano il sud della penisola e la sua storia. Le visioni alterate tramutate in passaggi strumentali sono le chiavi per capire le successive Cisternino Bhole Baba Dhuni e A piedi nudi, pezzi che ci spingono oltre l’orizzonte per riportarci poi ben saldi a terra.
In Viaggi di Paolo, l’apertura è affidata ad una jam anarchica che si trasforma in musica densa di contenuti anche grazie al ritorni del bouzouki di Roberto D’Ambrosio, ripetuto poi nella visione di Korhintos, traccia che si chiude con il suono registrato dello stormo di uccelli. Ilenia Protino suona il basso e regala la sua voce in Chiarezza, narrazione acid folk che è arricchita dalla voce femminile. Una menzione d’onore va riconosciuta a Le cose non girano più, canzone che nella sua maggior concretezza non fa perdere il senso onirico di un lavoro che è destinato a segnare il passo nella musica cantautorale italianae mi lascia una tiepida convinzione: un giorno riparleremo di Amerigo Verardi con ancora più passione.
Testo a cura di Andrea Alesse