Dadamatto
Canneto
Autoprodotto
Tra il 2017 e il 218 sembra essere sbocciato il ritorno dei gruppi significativi dell’underground italico. Se nel gennaio ’18 i Fluxus sono tornati a randellare, sul finire del vecchio anno sono i Dadamatto ad aver licenziato un nuovo interessante prodotto. Dopo la sterzata prog di Rococò del 2014, il terzetto marchigiano ci riprova con un album, Canneto, figlio dell’urgenza di una nuova comunicazione sonora. Lontano dalle hit di classifica e felicemente autoprodotti, i Dadamatto mescolano una scrittura ricercata dedita ad una miscela post-punk/prog/ autarchico-rock, proprio come piace ai tre, figli ormai conclamati di una scelta anarco-punk e musical dadaista.
Sgambate in stile Rifkin Kazan (Vulcano) per dimostrare la propina esplosività, e tocchi di keyboards psichedeliche (Impero) che incontrano gli attuali C+C Maxigross, sempre riletti con un’autonomia e una propria cifra stilistica che utilizza cori e arrangiamenti corposi e ricercati.
I Dadamatto con Canneto tornano dunque a casa, ritrovando la familiarità con la sperimentazione e una sorta di ritmo improvvisato, capaci in un pezzo come Pilade di farsi più rock’n’roll, sfiorando la psichedelia garage. Il cantato esclusivamente in italiano dona melodia, mentre l’uso di theremin e a organi, spacchettati qua e là in Canneto, concede ai tre rockers l’attitudine e la ricercatezza di una band comunque matura, forse arrivata al suo miglior lavoro.
La melodia è un punto di arrivo, cantata con l’allegoria metaforica di Sperma e gli accordi quasi magici che spazzano via le liturgie di una musica mai statica e banale, ripresa in Zanzare con uno stralunato utilizzo di synth e un ritmo vorticoso che fa da contorno ad una poesia d’amore.
I Dadamatto non annoiano mai, dunque, provando a rilanciarsi una scena ormai asfittica e purtroppo satura di cantautorato basico e copiato. Ma, come cantano loro, “la vittoria è vile”, è bisogna attendere sul divano la reazione ad un disco che già dall’introduttiva titletrack chiarisce il geniale rapporto con la contagiosa follia musicale del gruppo.
Andrea Alesse