Jacopo Lorenzon- Intervista al cantautore, che ci presenta l’album “Controluce siamo tutti uguali”

 

In uscita il 21 aprile su tutte le piattaforme digitali, per l’etichetta La Stanza Nascosta Records, l’album “Controluce siamo tutti uguali”, esordio discografico di Jacopo Lorenzon.

Dieci brani per un indie-pop diafano e impalpabile, con un cantato volutamente sommesso che sembra quasi provenire, come in teatro, dalla buca del suggeritore, adombrando disegni esistenziali in nuce, volutamente inconclusi.

Bozzetti introspettivi dichiaratamente embrionali, nei quali la linea melodica sembra scorrere surrettiziamente, affiorando a tratti, a volte come una reminiscenza, a volte come una epifania.

“Controluce siamo tutti uguali” è un racconto intimo e sperimentale, costruito anche attraverso l’impiego di strumenti non convenzionali (in “Dormiveglia” è una scatola di cartone, suonata con delle bacchette, a fungere da batteria); suggestioni nickeviane (si ascoltino in particolare lo strumentale “In absentia” e  “Sporche di catrame”) e una chitarra acustica portante per un album che mette a nudo le dissonanze di una generazione irrisolta.

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Jacopo Lorenzon, classe 1991, di stanza a Milano.

 

Sei al tuo esordio discografico con “Controluce siamo tutti uguali”, prodotto e distribuito da La Stanza Nascosta Records. In passato hai scritto delle recensioni in ambito musicale, com’è “essere dall’altra parte”?

Le due cose hanno qualcosa in comune: ho sempre provato a raccontare un artista o un disco attraverso le mie emozioni, non solo descrivendo ciò che ascolto ma esprimendo ciò che provo. In qualche modo, quindi, scrivere di musica significa per me anche mettersi a nudo. Lo stesso avviene ora, con un’intensità naturalmente molto maggiore.

“Controluce siamo tutti uguali” è un titolo molto evocativo…puoi raccontarci perché lo hai scelto?

Il titolo viene da un verso del brano di apertura del disco, Dormiveglia. Il testo usa un’immagine fotografica, si parla di foto venute male, in cui non è possibile distinguere i soggetti. Controluce siamo tutti uguali, siamo tutti neri. Ho scelto questa immagine come filo conduttore: il disco parla di contraddizioni, dell’essere consapevoli che nessuno può dirsi realmente limpido. E però non è un titolo pessimista: è più un invito ad accettare debolezze ed errori. Che sono ciò che ci rende tutti uguali.

Ci sono delle suggestioni letterarie, filmiche e musicali nel tuo lavoro? Se sì quali?

Ce ne sono sicuramente molte, anche se suppongo perlopiù inconsapevoli. Credo che tutto quello che ascoltiamo, leggiamo o guardiamo concorra inevitabilmente a creare suggestioni che si stratificano e si intrecciano. Nel disco c’è molto di ciò che ho amato: ho cercato di farlo mio cercando di perdere i riferimenti per provare a dire qualcosa.

Quale pensi e speri possa essere il tuo pubblico?

In realtà non ho mai avuto in mente un pubblico ideale a cui rivolgermi. Penso che possa essere chiunque e nessuno, credo dipenda dall’incontro che avviene tra le canzoni e chi ascolta. Sono canzoni, sono vestiti che chiunque può indossare quando, come e soprattutto se vuole. Mi piace pensare che questi brani possano restare lì e incontrare chissà quando e chissà come qualcuno che abbia voglia di farli propri, nel modo che preferisce.

Le tue indicazioni biografiche sono estremamente scarne, immagino sia una scelta voluta…

Non sono molto bravo ad espormi in prima persona, ecco… Non penso di essere così interessante! Preferisco lasciare in primo piano le canzoni, lascio parlare loro.

Cinque canzoni immancabili nella tua personale playlist?

A questa domanda non riuscirei mai a rispondere: sono troppo poche! Posso provare con gli album? In ordine sparso: Anime salve di Fabrizio De André, Anima Latina di Lucio Battisti, The Empyrean di John Frusciante, Wish You Were Here dei Pink Floyd, Love Over Gold dei Dire Straits, Thick as a Brick dei Jethro Tull. Sono sei? Poco male, domani potrebbero essercene altrettanti diversi.

Ritieni che “Controluce siano tutti uguali” possa essere “cristallizzato” in un genere di riferimento?

Non ho mai scritto avendo un genere in testa: credo che nei brani si possano ritrovare influenze e sonorità diverse, ma non saprei identificare un’etichetta che vada al di là della forma-canzone cantata in italiano. Non so se basti, ma è una non definizione che riflette anche il mio modo di ascoltare la musica: slegata dai cosiddetti generi.

Come ti immagini tra un decennio?

Non ne ho idea, e sono contento così! Non guardo così in là, cerco di godermi quello che sto vivendo nel modo migliore. Se dovessi esprimere un desiderio, però, spero di immaginarmi sereno e con ancora voglia di raccontare qualcosa con la musica.

Tre aggettivi per definire la tua musica?

Solitaria, artigianale, mutevole.


 

Un ringraziamento particolare a La Stanza Nascosta Records 

Intervista della Redazione di the front row

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