Dopo la possente data di Roma al Monk, la band post-hardcore dei Brutus arriva anche a Milano, riscaldando il freddo e piovoso lunedì sera di un Legend Club pieno quasi fino all’orlo.
Dalla loro formazione nel 2014, i Brutus si sono fatti un nome con il loro rock irrequieto ed emotivamente crudo che attraversa il panorama del metal, punk e post-hardcore, spesso nella stessa canzone. I tre membri si sono incontrati per la prima volta nella loro città natale di Leuven, dove si sono fatti le ossa suonando in diverse band locali. Le loro influenze sono ampie e varie. La batterista/cantante Stefanie Mannaerts, cresciuta sopra un negozio di musica gestito dalla sua famiglia, ama una varietà di generi, dal post-metal alla musica elettronica. Il bassista Peter Mulders è più punk, mentre il chitarrista Stijn Vanhoegaerden ama il country e il rock più melodico. I loro diversi gusti si uniscono nei Brutus per creare un suono tanto pesante quanto inaspettato, pieno di bellezza e sorprese.
A partire dall’album di debutto del 2017 Burst passando per Nest del 2019 e arrivando alla pubblicazione durante la pandemia di un album live registrato alla Handelsbeurs Concert Hall nella loro città natale, i Brutus sono saliti di livello ad ogni nuovo lavoro. Tuttavia, fino all’ultima uscita a Unison Life non avevano avuto il tempo per riflettere sulle loro evoluzioni future. «Volevo che ogni canzone sembrasse l’ultima che avremmo mai scritto», spiega Mannaerts. «Mi ha ucciso dentro perché è uno standard incredibilmente alto, ma era il mio obiettivo personale per questo album. È stata una ricerca di due anni per cercare di fare meglio e sono molto orgoglioso di ciò che abbiamo fatto insieme.»
La band ha lavorato a Unison Life per un anno e mezzo, anche se la maggior parte del tempo l’ha passata in giro. Quando non era bloccato a casa per la quarantena, il trio si rintanava nella sua sala prove a Gent, sfruttando al massimo il tempo libero concesso dalla pandemia per sperimentare, scambiarsi influenze, parlare e cucinare insieme. Tra una sessione di scrittura e l’altra, hanno setacciato siti web di oggetti di seconda mano alla ricerca di cose diverse – molti amplificatori, chitarre, bassi, un sintetizzatore per basso, effetti a pedale, persino alcune campane tubolare – con cui suonare. Il risultato è un album di estremi. Le parti pesanti sono ancora più pesanti di prima e i momenti delicati sono più melodici che mai.
Il concerto si apre con la furiosa Liar, direttamente da Unison LIfe, ultimo lavoro della band, per poi proseguire coprendo quasi tutto l’ultimo album e una manciata di pezzi dalle precedenti produzioni.
In apertura la tenebrosa kariti, artista di origini russe ma triestina d’adozione, che ha portato sul palco del Legend i canti funebri del suo album Covered Mirrors, opera che rimanda all’antica usanza funebre italiana, ancora in voga in certi paesi del Meridione, di coprire gli specchi delle case dei defunti con panni e coperte, in modo che la loro immagine non vi rimanga bloccata o possa trascinare con sé persone ancora in vita. Suoni dolorosi con cantati in inglese e in russo, incrociati con i ritmi drone metal scaturiti dalle chitarre del marito Marco (già membro dei Grime, ottima band sludge metal con una storia decennale) per un risultato profondo e emotivo.
Ringraziamo Alice Degortes di Barley’s Art per il graditissimo invito.
Reportage fotografico a cura di Ferdinando Bassi.