Federico Poggipollini: non potrei vivere senza la musica

In molti lo conoscono come Capitan Fede, il “chitarrista” di Luciano Ligabue, ma lui, Federico Poggipollini è un musicista che ha una storia personale da raccontare. Dai suoi esordi bolognesi ancora adolescente ai palchi dei Litfiba, fino ad arrivare al Campovolo. Una montagna russa di emozioni che vanno dalla sua attività “underground” fatto di concerti intimi a quella internazionale, come strumentista dei grandi artisti.

In occasione del suo concerto al Mc Ryan’s di Moncalieri, dove ha presentato il suo ultimo disco Nero, l’abbiamo intervistato, per conoscere meglio la sua storia. Ecco cosa ci ha raccontato.

Chi è davvero Federico Poggipollini? Il chitarrista del Liga o il musicista che respira fumo e polvere dei piccoli club?

«Io sono tutte e due le cose. Essere musicista significa portare avanti questo mestiere che è partito dauna passione giovanile. Il mio obiettivo è quello di non far finire la passione e per raggiungerlo ho capito che è necessario mettermi in gioco. Da una parte c’è un musicista che si presta ad accompagnare i grandi nomi, parlo della collaborazione ventennale con Luciano, o con i Litfiba; dall’altra c’è il mio percorso solista che deriva proprio dalle mie origini musicali. Già fin da ragazzino, insieme ad una band di Bologna ho iniziato a scrivere canzoni e nel corso degli anni ho proseguito su questa strada fino ad oggi. Naturalmente ho sempre cercato di dare la precedenza al mio lavoro, che è quello di fare il chitarrista, in questo caso accompagnando Ligabue. Sono due facce, siamo d’accordo, ma di una stessa medaglia».

Da qualche mese è uscito Nero il tuo ultimo disco ed oggi sei in tour. Cosa racconti al pubblico?

«Nero è un disco molto particolare. Ultimamente avevo deciso di abbandonare il mio progetto cantautorale e negli ultimi sei anni avevo pensato ad un qualcosa in cui i brani fossero più strumentali e ci fosse una maggiore libertà musicale. Nel 2008 ho incontrato Michael Urbano, che oggi è il batterista di Ligabue. In quel momento eravamo in America, dove si ascoltavano i Black Keys e i White Stripes. Entrato nel suo studio mi sono accorto che le sonorità che produceva Urbano, erano molto simili a quelle che avevo in testa. Così è nata una collaborazione, lui si è offerto di ascoltare alcuni miei pezzi, di produrli e registrarli. Così dopo tanto tempo, senza nessuna fretta è nato Nero. Devo dire che la pausa di riflessione mi è servita moltissimo, perché mi ha consentito di reintervenire a più riprese, facendolo diventare il mio primo vero disco. In questo lavoro ho trovato una mia identità musicale, sia dal punto di vista dei testi, che quello musicale. Se ho raggiunto questo obiettivo lo devo proprio a Urbano».

Il disco è molto vario e propone varie facce: si va dal rock anche duro al blues, fino al pop. Si ascoltano tante contaminazioni musicali, ma a noi piacerebbe sapere quali sono quelle più vicine a te…

«La matrice del disco è rock, non ci sono dubbi. Anche la melodia, per me che ascoltavo i Beatles, è molto importante. Intorno alla parola rock, spesso si genera confusione. Ti faccio un esempio parlando del brano Rock the Casbah. Si tratta di un pezzo pop, non ci sono discussioni, eppure cantata da Joe Strummer diventa un brano rock, proprio a causa della sporcizia e l’imprecisione della sua esecuzione. Il rock è proprio questo: una musica sincera e non leccata. Credo che il mio disco contenga tutto questo. Se vogliamo dirla tutta, ogni brano è un omaggio al mio background: di possono ascoltare i Pink Floyd, i Clash, Jimmy Hendrix, i Sonics, i Rolling Stones. Ma si sentono anche garage rock e il blues. Tutto, ma proprio tutto è fatto con sincerità e passione. Le tracce sono state scelte da un elenco molto più vasto e ogni singolo pezzo ha un significato. Io lo definirei quasi un concept album che ha bisogno di essere ascoltato con attenzione. Ti dico ho un grande riscontro meraviglioso, la gente lo adora ed io nel tour lo propongo integralmente».

Ritorniamo al Poggipollini artista: con Ligabue hai la possibilità di calcare palchi pazzeschi: pensiamo agli stadi o al Campovolo. Poi c’è il Federico underground che suona nei piccoli club, come avverrà questa sera a Moncalieri. Il tuo istinto da quale delle due parti ti porterebbe?

«Sono strade, mondi e spettacoli completamente diversi. Ed io ho la possibilità di vivere entrambe le esperienze. Credo in questo senso di essere molto fortunato, perché ho potuto fare cose che colleghi forse più bravi di me non si possono nemmeno sognare. Diciamo che il Poggipollini solista si presta ad esibirsi nei club, anche solo per una questione di pubblico meno numeroso. Credo che l’immediatezza di un piccolo palco sia comunque una cosa che mi affascina. Io stesso da fan, preferirei vedere il concerto dei Queen of stone age in un posto piccolo, piuttosto che in uno stadio, perché sono convinto che il loro fascino si esprima appieno in sale più piccole. I concerti di Ligabue o degli U2, non potrebbero essere relegati in simili spazi, perché ormai sono una macchina paurosa. La musica è solo una parte dello spettacolo, fatto di luci, scenografie, palchi mastodontici».

Che rapporto hai con Luciano, riesci a portare il tuo contributo musicale?

«Ma certo. Luciano si è da sempre circondato di musicisti che potessero interagire con la sua musica e quindi molto spesso si discute e si parla sul modo migliore di proporre un brano».

 

Tu che sei ormai un personaggio mediatico, hai la possibilità di vivere momenti di libertà e da perfetto signor nessuno?

«Beh nel caso mio non ho davvero di questi problemi, riesco ad uscire di casa tranquillamente, vivendo la mia vita da comune mortale. I momenti di grande mediaticità sono piacevoli, anche se devo confessarti che negli ultimi anni anche i super big non sono più blindati come un tempo».

 

Immagini un Federico senza musica?

«Io non posso davvero accettare l’eventualità di non fare musica. Ho ancora grande entusiasmo e talvolta mi sento quasi un bambino. Mi piace informarmi, seguire gli artisti, imparare. Un artista che si sente arrivato è già finito. Io continuo ad avere enormi stimoli».

E quindi cosa ci sarà nel tuo futuro?

«Il mio futuro sarà quello di portare in giro questo disco, che è costato in termini di lavoro ed anche di investimento. Si tratta di un prodotto che non è trasmesso in radio e quindi ho la necessità di martellare in modo maniacale, laddove sia possibile, per farlo capire ed apprezzare. Naturalmente ho altre richieste di lavoro, ma per quelle ci sarà tempo».

L’ultima domanda è quasi obbligata, dopo gli accadimenti parigini. Ti saresti mai aspettato che un concerto e la musica diventassero un obiettivo terroristico?

«Guarda sono molto scosso di ciò che è successo. Credo che in questo caso la musica non c’entri nulla, ma sia solo un pretesto per colpire luoghi dove ci sono grandi assembramenti, basti pensare alla bomba nella stazione di Bologna».

 

Foto e testo di Vincenzo Nicolello

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