Un paesino sperduto sulle colline della valle Tanaro in Provincia di Cuneo, Piozzo; Un artista, Eugenio Finardi, che proprio quest’anno festeggia i 40 anni del suo primo album, forse il più celebre, Non gettate alcun oggetto dai finestrini. Due entità apparentemente distanti, che si incontrano, si piacciono. Da questo “matrimonio” nasce un festival musicale Musica e dintorni, che sotto il marchio Le Baladin animerà le afose serate di questa torrida estate. Il direttore artistico di questo appuntamento sarà proprio Finardi, che ha voluto affiancare Diego Occelli, nell’allestimento della line up. Due esperti di musica che hanno fatto le cose in grande, al punto di offrire gratuitamente la grande musica d’autore. Si partirà mercoledì 22 con Fabio Treves, per passare a giovedì 23 con Zibba e Almalibre, quindi il 24 sarà la volta del talento torinese Li Bassi e per finire un altro talento siculo-torinese Levante. Ci sarà ancora una coda “in trasferta” con due show a Cuneo (Parco della Gioventù) che vedranno sul palco The Bluebeaters (28 luglio) e Daniele Ronda (29 luglio).
Tutto gratis, in piazza all’aperto, a Piozzo, magari con la possibilità di assaporare una delle tante birre artigianali di Teo Musso, deus ex machina de Le Baladin.
In vista di questo appuntamento è stato bello e divertente parlare di musica con Finardi, un intervista che parte dal festival per arrivare a fare riflessioni sul panorama italiano e sul suo destino.
Eugenio, come hai scoperto Piozzo?
«Semplicissimo, sono stato invitato a suonare qui due anni fa. Ho conosciuto questo luogo, ho conosciuto Teo, ma anche il pubblico che frequenta questa piazza. E’ stata una bellissima serata, molto divertente e partecipata. Ai piedi del palco tantissimi ragazzi e quindi è stato facilissimo innamorarmi di questi luoghi. Per la verità a questo territorio sono molto legato, da quell’incontro ho fatto altre serate organizzate da Le Baladin. Ci siamo conosciuti, piaciuti e capiti. Loro mi hanno chiesto una mano per organizzare questa edizione di Musica e Dintorni. Proprio pensando alle vibrazioni di quel pubblico che mi aveva applaudito, ho capito di che cosa avesse bisogno. Così è nato il cartellone 2015».
Spiegaci come hai scelto gli ospiti.
«Ho scelto Fabio Treves per l’apertura, perché il suo blues è perfetto per questo pubblico, per la birra. Quest’anno è il quarantennale della Treves Blues Band e quindi sarà un ottimo compleanno, magari da festeggiare in mia compagnia, visto che sono passati 40 anni da quando ho inciso Non gettate alcun oggetto dai finestrini. Con Fabio ci conosciamo da quasi 50 anni, più che un amico è un fratello. E’ un diversamente giovane come me e mi sembrava perfetto».
E gli altri?
«Zibba l’ho conosciuto recentemente e mi sembra che rappresenti molto bene questo territorio, che collega la pianura al mare della sua Liguria. Mi piace il suo umorismo, la sua serietà sarcastica. Con la sua band, gli Almalibre, è perfetto per dare il giusto pepe a questo luogo. Li Bassi ha partecipato a Palco Aperto, una manifestazione che mi sono inventato per dare spazio ai giovani. Nel corso del mio tour nei vari club italiani, dove solitamente si inizia a suonare tardi c’era bisogno di aprire la serata con talenti emergenti. Ho indetto questa sorta di concorso che aveva in premio l’opportunità di aprire il mio concerto. Lui, torinese ha partecipato alla selezione di Milano e l’ho scelto. La chiusura sarà affidata a Levante, che è una figura consolidata nel panorama musicale femminile ed in particolare del cantautorato».
Il Festival prevede anche qualche incursione di Eugenio Finardi?
Nella prima serata sì. Farò qualche pezzo con Fabio Treves, poi purtroppo dovrò andare a lavorare».
Da Musica e Dintorni passiamo a Parole e Musica, che è un tuo progetto parallelo…
«Ho due tipologie di concerto. Quello elettrico tradizionale, in cui parlo pochissimo e suono rock. Poi, in seguito alle sollecitazioni del pubblico della mia generazione, ho lanciato l’idea di proporre uno spettacolo più intimo, in cui le canzoni hanno un prologo, nel quale spiego come sono nate e quali siano state le esperienze che le hanno ispirate. Diciamo che è ideale per situazioni più raccolte, dove il rock sarebbe più invadente».
Parliamo di musica. Cosa salveresti di questo particolare contesto storico?
«Credo che sia proprio il cantautorato femminile a nascondere le cose più nuove. Ogni giorno ricevo demo da ascoltare e devo dire che spesso ciò che ascolto è un dejavù: mi sembrano cloni di cose che esistono già. Mi arrivano due simil Capossela, una copia degli Afterhours e così via. Tra le donne invece non è così c’è molta diversificazione e originalità».
Perché la musica italiana è così in difficoltà. Manca la creatività o ormai sono i nostri tempi che divorano tutto nel giro di poche settimane?
«Ci sono vari fattori. Prima di tutto non si vende più. Ma non è soltanto un problema di soldi, intendiamoci. I giovani e tra questi ci metto anche mia figlia, ascoltano la musica in streaming. Non si tratta di pirateria, semplicemente ascoltano le proposte del momento, senza crearsi una discoteca personale. La nostra generazione, non aveva questa opportunità e quindi acquistava i dischi. Magari poi li abbandonava, ma poi con il tempo li riscopriva. Oggi purtroppo le cose vecchie di sei mesi sono dimenticate, siamo nell’epoca del tutto e subito. E’ un consumo diverso che fa parte del meccanismo economico moderno, quello dell’usa e getta».
Per fortuna esistono i grandi classici..
«Infatti, io ringrazio il cielo di averne scritto qualcuno e dopo 40 anni sono ancora qui. Mi chiedo davvero come oggi possano nascere dei classici…».
Cosa resterà di questi anni duemila.. quindi?
«Chi lo sa? Magari i pezzi che oggi sembrano dimenticati, ritorneranno fuori prepotentemente. In fondo mi ricordo che i critici dicevano le stesse cose di me e di Musica Ribelle. Ed invece dopo quarant’anni è un brano ancora ricordatissimo. Che cosa rimarrà, comunque è difficile da dire».
Se tu non fossi Finardi e fossi un giovane che vuole iniziare a fare il musicista, a che tipo di genere di rivolgeresti?
«Sicuramente il rock, ma anche il pop. Diciamo che rifarei ciò che ho fatto ai miei esordi, magari cambiando un po’ i tempi e puntando sulla cassa in 4/4. Diciamocelo, non c’è stata una grande evoluzione musicale, come quella dei vari Sergio Endrigo o Tony Dallara, che sono stati spazzati via dal Beat e dal Rock. Adesso c’è una specie di continuità, un filo che non si è mai interrotto. Si sono arrivati i rapper, ma la musica d’autore è ancora la stessa».
La musica dal vivo sta vivendo un momento magico e sembra l’unica vera salvezza per questo settore. Non ti pare, tuttavia, che si stia mungendo un po’ troppo questa vacca, con il rischio di prosciugarla?
«Io credo che di musica dal vivo non ce ne sia mai abbastanza. Trovo irritante la moda dei Dj set. Capisco che siano economici e rendano molto agli organizzatori, ma sono la sconfitta dei musicisti. In altre culture, come quella inglese, è molto diffusa l’usanza nei concerti nei pub. Ogni giorno della settimana c’è qualche session live e questo fa la differenza. Là escono i musicisti e qui no. Là ci sono occasioni per suonare, qui molte meno. Io stesso ho fatto la mia gavetta nelle sale da ballo…».
Forse è proprio questo il motivi che ti ha spinto a diventare il direttore artistico di questo festival…
«Certo, bisogna ringraziare gente come Teo Musso, che mette i suoi locali a disposizione degli artisti emergenti. Questo è vitale per il futuro della musica, non i dj set che io paragonerei alla masturbazione, invece dell’amore».
A cura di Vincenzo Nicolello