C’è da rimanere stupiti della storia del cantautore Diego Bitetto. Il suo è stato un lungo percorso iniziato all’età di soli 5 anni, perfezionato e concluso presso il conservatorio “Paganini” di Genova. Pianista e compositore raffinato, capace di incantare per i suoi testi intrisi di significati ed esperienze personali, a suon di musica, note e poesia. A soli 16 anni, scrive il suo primo volume dal titolo “I senza nome”, scritto in italiano antico e pubblicato dalla Firenze Libri.
Non a caso, il progetto dell’album d’esordio “Il Giardino di Mai” nasce da decine e decine di canzoni scritte proprio tra i 16 e i 38 anni. Tra queste, ne sono state selezionate quindici, arrangiate con un impronta classica nella quale emerge la scuola dei cantautori genovesi, Fabrizio De Andrè su tutti.
Ciao Diego! Raccontaci di te e come ti sei avvicinato alla musica?
Ciao Ivana, intanto grazie per l’ospitalità! Sono un giovane vecchio cantautore ligure che si è innamorato del pianoforte a 5 anni. Ho sostenuto da privatista gli esami presso il Conservatorio di Genova e, forse appena maggiorenne, ho cominciato a scrivere canzoni. La mia passione per la Lessicografica, prima ancora che per la Letteratura, mi ha favorito la stesura dei testi, nei quali ho amato fotografare esperienze di vita vissuta tra il mondo reale della vita di fuori e quello incantato della tenuta di famiglia.
Quali artisti ti hanno maggiormente ispirato nel tuo stile e sound? E, con quale artista ti piacerebbe collaborare?
Per quanto attiene l’impostazione della scrittura, sicuramente Fabrizio De Andrè; per quanto attiene arrangiamenti e orchestrazione, soprattutto in riferimento alle partiture per pianoforte, direi la Scuola Clavicembalistica, di matrice bachiana. Ovviamente, come amava dire una mia coltissima ex professoressa di latino, mutatis mutandis (fatte le dovute relazioni/proporzioni).
In questa vita, mi piacerebbe passare un pomeriggio con Francesco De Gregori.
La tua passione per la musica come confluisce e convive con quella per la scrittura/poesia?
Restano comunque due “settori merceologici” diversi, per rubare un’espressione propria a quei beni di consumo che, in questo caso, fanno bene all’anima. Nella mia visione la passione per la Musica si traduce nella ricerca del tocco sullo strumento fisico e, parimenti, della dinamica e del cosiddetto suono; nella fatica e nella pazienza delle continue e quotidiane sessioni di allenamento alla tastiera, nello studio degli stili dei grandi Compositori; nella ricerca della velocità nel controllo, nell’analisi della commistione delle armonie e delle infinite permutazioni di note che rinnovano eternamente la magia degli accordi.
Nella Poesia cerco e studio le variazioni di ritmo nelle frasi, capaci di sconvolgere la linearità del verso, i respiri cercati nella varietà degli accenti, la perizia nella gestione della metrica e delle rima unitamente alla profondità del pensiero, alla forza evocativa e descrittiva della vicenda umana, alla suggestione della potenza onirica di alcuni lessemi, che scritti qui non dicono nulla e scritti lì dicono tutto.
La sintesi che si ottiene dall’unione delle due arti mortifica necessariamente le peculiarità di entrambe e nel contempo crea una nuova meraviglia, che chiamiamo comunemente “Canzone d’Autore.”
Da cantautore quali sono i tuoi obiettivi e a cosa ti ispiri nel farlo?
Cantare le proprie canzoni, francamente, ritengo non possa avere alcuna missione: l’espressione della creatività, in quanto tale, non è un lavoro nè può ambire a generare con ragionevole continuità posti di lavoro per terzi: nessuno ti ha chiesto di farlo, il mondo fa benissimo a meno del tuo estro e stare qualche volta sul proscenio di un palco non ti dà diritto a improvvisarti un profeta, un saggio o addirittura un esempio per qualcuno.
Con uno sforzo di trasparenza, ragiono che l’esercizio di cantare le proprie idee o le proprie esperienze davanti ad un pubblico sia, in buona parte, una professione di mero esibizionismo, che diventa un orgoglioso autocompiacimento se si riesca ad avere prova di aver trasmesso qualche emozione sincera; tuttavia, voglio credere possa essere anche un momento di suggestione e incanto e, perché no, di condivisione informale e acritica di sentimenti e visioni, di comunione di piacevolezza.
La mia ambizione è quella di un uomo alla ricerca di attenzione: venire riconosciuto, venire considerato e, se le cose vanno particolarmente bene, venire in qualche modo ricordato.
Parliamo del tuo album d’esordio “Il Giardino di Mai”: come nasce e cosa hai voluto racchiudere e raccontarci in questo progetto?
Il disco nasce dall’esigenza di un ragazzo di 39 anni di cominciare a chiudere i cerchi che ha cominciati nella sua vita: avevo urgenza di possedere un supporto riproducibile, come un disco, per rassicurarmi sul fatto che avrei lasciato una traccia durevole della mia “esistenza artistica.” Ho, forse, aspettato tanti anni per fare in modo che questa impronta mi rappresentasse interamente, che fosse la summa delle capacità che sono riuscito ad acquisire in età ormai matura. Volevo un lascito di cui non dovermi vergognare, di lì a qualche tempo.
Ho raccontato la mia vita nello spettro dei lavori che ho fatto per sostentarmi, ho descritto la mia visione della paura, il pragmatismo della mia disillusione, la polvere di magia residua che sopravvive nella mia speranza: tutto questo e molte altre cose convivono ne “Il Giardino di Mai.
C’è una traccia del disco che ti rappresenta di più e perché?
“Per Sempre” è il mio autoritratto. (L’ho detto.)
Descrivi la tua musica con tre aggettivi
Onirica, profonda, lontana.
Come hai vissuto il periodo di pandemia senza la possibilità di fare concerti?
Ho terminato il mio primo disco ed è cominciata la pandemia: non avevo concerti prima e non ne ho avuti dopo. Direi, in buon sostanza, con invidiabile coerenza.
Guardando al tuo futuro quali sono gli obiettivi e sogni nel cassetto che intravedi?
Mi piacerebbe misurarmi con la sensibilità di un pubblico dal vivo e mi piacerebbe ascoltare almeno una mia canzone suonata da un’orchestra vera, per capire se l’ho scritta bene.
Intervista a cura di Ivana Stjepanovic
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