Gipo di Napoli: vi racconto la mia Bandakadabra

Carlo Petrini, giornalista, fondatore di Slow Food, l’ha chiamata una “fanfara urbana”.

Calzante definizione per una gruppo che fa della città il suo panorama d’elezione e della strada non solo lo scenario in cui esibirsi, ma anche il luogo da cui trarre ispirazione Nata a Torino, la Bandakadabra ha saputo compiere negli anni un percorso artistico che l’ha portata a esplorare stili musicali diversi, cercando sempre di proporre arrangiamenti divertenti e originali. Il risultato finale è un repertorio estremamente vario che ammicca ora alle “big band” anni Trenta, ora alle fanfare balcaniche, con frequenti incursione nel rocksteady, nello ska e addirittura del drum and bass. Lo spirito è sempre irriverente perché il tratto principale della band rimane la sua capacità di coinvolgere il pubblico in un dialogo continuo che si ispira all’arte di strada, fatto di sketch comici, improvvisazioni teatrali e balli sfrenati. Capace di unire l’energia delle street band alla precisione musicale dei grandi ensemble di fiati, in soli due anni la Bandakadabra ha iniziato a esibirsi in Italia e all’estero, arrivando in soli due anni a collezionare quasi duecento repliche tra festival di strada, rassegne jazz e manifestazioni di indie music.

In occasione del concerto tenuto nell’arena Sacerdote di Alba, abbiamo incontrato il leader indiscusso, Gipo Di Napoli ed è nata questa intervista. Ecco cosa ci ha raccontato.

Gipo, ci racconti brevemente come è nato il tuo gruppo?

«La storia della Bandakadabra nasce nel 2005 al termine di una diaspora di altri gruppi. Almeno all’inizio si trattava di una band amatoriale, che non aveva una grande affinità lavorativa. Con il passare degli anni la formazione è cambiata e le esigenze sono diventate altre e di quella compagine sono rimasto soltanto io. Abbiamo iniziato a girare con continuità e a tenere concerti in tutte le parti di Italia. Direi che per quello che mi riguarda la data di nascita è il 2014».

Al contrario di quanto possa apparire, la vostra proposta artistica è tutt’altro che improvvisata.

«In effetti abbiamo diversi copioni e quindi quando parlo a ruota libera in realtà so benissimo dove andare a parare. Lo spettacolo è stato costruito negli anni per adattarsi al pubblico e quindi varia a seconda delle suggestioni che gli spettatori ti danno in quel momento. Trovo estremamente noiosi quegli show in cui l’artista non prende in considerazione chi gli sta davanti. Io ho voluto sin da subito interrompere questa dinamica perché io amo dialogare con la gente. Lo spettacolo si chiama “Figurini”, proprio perché il nostro è uno scambio continuo».

Il vostro repertorio a cosa si ispira?

«Noi attingiamo a piene mani dallo swing, dal balkan e dal rock steady. In realtà proponiamo un genere che solitamente viene ignorato dalle marchin’ band, che puntano al funky. Giriamo per strada, è vero, ma abbiamo un’impostazione orchestrale. Il resto lo fa la nostra estrazione musicale. Ognuno di noi ascolta cose diverse e le porta al servizio del gruppo». Quali sono queste estrazioni? «La maggior parte di noi ha formazione jazzistica, qualcuno viene dalla musica classica e dal mondo del reggae. Parlo per esempio di Stefano Colosimo che suona anche per gli Africa Unite».

Qual è l’ambiente che più vi è congeniale?

«All’inizio era la strada. Oggi direi che almeno la metà dei concerti è ospitata da palchi teatrali. Passano gli anni per tutti e quindi trovare collocazioni più comode diventa quasi un’esigenza. Si tratta anche di una maturazione artistica. Avere un pubblico composto davanti a te, magari con lo sguardo freddo e critico, può creare timore, ma noi piano piano abbiamo superato questo impatto e ci troviamo benissimo».

Come avviene la selezione dei musicisti?

«Di fatto io non ho mai scelto nessuno. La Bandakadabra non è una struttura dirigistica ma una democrazia, chi è entrato è perché voleva farlo, o più semplicemente perché qualcuno si è fatto da tramite affinché ci incontrassimo. Di sicuro anche se non avevamo collaborato in precedenza ci conoscevamo e ci stimavamo a vicenda».

Avete quasi vinto il Festival di Sanremo e il Premio Tenco oppure sbagliamo?

«In realtà né uno né l’altro, anche se nel mio personale palmarés posso dire di essere stato su entrambi quei palchi, che poi in effetti è uno solo, visto che i due concorsi sono ospitati dall’Ariston».

Sono state esperienze sconvolgenti?

«Il Festival di Sanremo sì, perché si tratta di un universo a mio modo di vedere alienante e molto lontano dal mio modo di intendere la musica. Vero è che il mio ruolo è stato assolutamente marginale, visto che sono stato inserito in un’orchestra allestita da Roy Paci che ha accompagnato Biggio e Mandelli. Per ciò che concerne il Premio Tenco, invece, siamo stati invitati come gruppo ed abbiamo proposto le nostre cose».

Immaginiamo che il pubblico del Tenco non sia stato benevolo.

«All’inizio è stato così, poi le cose sono cambiate. Sia gli organizzatori che gli spettatori non avevano ben chiaro chi fossimo, pian piano li abbiamo conquistati, forse anche grazie alla nostra paraculaggine. A questo livello lo spropositato numero di concerti che facciamo in un anno ci ha aiutato. Il vero musicista è quello che suona dal vivo e anche quando si trova al di fuori del tuo ambienti deve riuscire a portare la gente dalla sua parte».

Avete progetti discografici in cantiere?

«Con questa formazione è già uscito un disco prodotto dalla Felmay di Torino, con la direzione artistica di Fabio Barovero. “Entomology”, questo il titolo, è particolarmente gettonato dal pubblico che partecipa aiconcerti. Si tratta di un live realizzato in studio. Di fatto abbiamo messo la gente in sala di registrazione ed è come se fossimo stati in un club. Adesso stiamo progettando un lavoro diverso e conterrà anche tracce inedite. Dopo aver marciato con le cover stiamo andando verso una nuova dimensione».

Foto  e testo di Vincenzo Nicolello

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