Indianizer è il suono del futuro, anche per la musica del bel Paese. A questo punto, sorge una domanda: puo’ un gruppo italiano suonare internazionale e fresco, elevandosi al di fuori dei confini italiani?
Ebbene, con “Zenith“, ultimo lavoro di otto tracce, sudore, beat e batteria downtempo indie (non spaventarsi al suono di questa parolona, please), gli Indianizer ci spiegano perché ciò è possibile, con parsimonia e goduria per i nostri timpani. Era dai tempi dei MAM (my awesome mixtape) che non mi entusiasmavo tanto con dei miei connazionali, e quindi mi compiaccio ballando e scaldando ulteriormente la mia estate con pezzi come Hypnsosis (i Vertical mischiati con i Pavement) e Dawn, prima traccia magistrale e nostalgica di enormità zona Sub Pop.
Qualche staccionata viene poi superata con Get Down, in cui una filastrocca cantautorale e preda di synthwave e goliardia, frullata con loro inconfondibile d risaputo amore per gli Animal Collective. Dei suoni stranianti è una marcia lunare in cui Tom Waits sceglie una droga sintetica è e non il soloto bourbon, questa è la supremazia del suono degli Indianizer, trio torinese che viaggia alto con Mazel Tov un brano dal tropicanesimo spaziale e dalla samba suonata con il beat electro per gli alieni, popoli che per i nostri Indianizer sono amici del futuro.
Proseguendo il viaggio senza meta di “Zenith”, con hermanos ci si palesa la ritmica sudamericana, incredibilmente suggestiva e scalciare in percussioni fresche e geniali. Un passaggio verso l’ignoto, prima del ritorno alle origini space elettro di Bunjee e il Parquet Courts sound di Bidonville, canzone piena di ottime intenzioni e di una batteria che suona come non mai tra i bidoni riutilizzati e un pop agrodolce ma sempre persinalissimo.
Il cerchio si chiude con l’Africa di Dusk, magistrale interpretazione di un nuovo continente che riemerge dai nostri rifiuti con una musica nera preda di un’unica proposta sonora, quella degli Indianizer
Andrea Alesse
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