E’ uscito lo scorso 20 ottobre, sulle piattaforme digitali e su supporto fisico, Aleph, il quarto lavoro in studio della cantautrice canavesana Pamela Guglielmetti, prodotto e distribuito da La Stanza Nascosta Records.
L’album è stato preceduto dall’uscita dei singoli La legge del tempo e La quarta casa, ambedue accompagnati dai videoclip ufficiali trasmessi in anteprima da Tgcom24.
Aleph come la raccolta di racconti di Jorge Luis Borges, Aleph come la prima lettera dell’alfabeto fenicio e come la prima lettera dell’alfabeto ebraico, Aleph come il numero zero, quello dal quale tutto prende forma e nel quale tutto trova la sua fine.
Abbiamo incontrato per una chiacchierata l’artista, una carriera tra danza, teatro e musica, un percorso artistico sempre nuovo scandito in ogni tappa da coraggio e urgenza di comunicare.
L’appuntamento per chi volesse ascoltarla dal vivo è sabato 18 novembre alle 21.00 a Cuorgnè (TO) per il concerto di presentazione di “Aleph”, evento curato dall’associazione Disco Vintage.
A livello di sonorità il suo nuovo lavoro, Aleph, sembra andare in un senso maggiormente sperimentale rispetto agli album precedenti. È una scelta stilistica condivisa con il produttore e arrangiatore Salvatore Papotto?
In realtà il mio primissimo album “l’Eco dei Mondi Perduti”, viaggiava su sonorità sperimentali ed ambientazioni oniriche. Era un primo esperimento per cercare di rappresentare i miei panorami interiori. Il secondo album “Frammenti” ha poi cambiato rotta; era nato tra il febbraio e il maggio del 2019, fermato da mesi che non scorderemo mai, e poi ripreso con fardelli emotivi collettivi. Rimettere mano ad un lavoro interrotto e riaffacciarvisi cambiati interiormente non era stato semplice, ne era uscito un risultato acustico, molto “ruvido”. Considero questo disco un ponte, che mi ha permesso di capire maggiormente cosa volevo davvero esprimere. “Cammino controvento” è stato il primo album di senso, con una struttura ben delineata che prediligeva il suono “vivo”, acustico, ma reso poetico. Le atmosfere dei miei brani hanno già dalle prime bozze una natura intimistica ed onirica, e richiamano per natura una comunicazione evocativa che può rivolgersi anche ai sensi ed alle emozioni. “Aleph” è il risultato a cui sono approdata portando con me ciò che ho sentito funzionare e risuonare meglio di queste precedenti sperimentazioni. Lo dico sempre, non amo definirmi, ogni lavoro pubblicato è stata la tappa di un percorso mutevole di ricerca a trecentosessanta gradi, anche se il nuovo lavoro lo sento finalmente una mia estensione. In Aleph sento finalmente me stessa, sia nelle prime versioni piano/voce, sia in quelle definitive arricchite di un lavoro magistrale di arrangiamento. A Salvatore Papotto ho dato carta bianca. È nata da subito una sinergia artistica: sapevo che lui riusciva a entrare in ogni mio testo e aveva il talento e la sensibilità di tradurlo in suono, e lui sapeva che poteva avere ampio movimento. Quindi posso dire che la scelta stilistica è nata da sé in modo del tutto spontaneo durante le fasi di lavoro e non a tavolino. È stato un incontro non cercato, si è manifestato secondo una regia “superiore” per pura sincronicità. Io ho semplicemente scelto di dire “sì”, in un momento in cui stavo decidendo abbandonare tutto a causa di anni troppo provanti in cui gli artisti, ma soprattutto gli autori, non riuscivano a trovare più collocazione ed erano sempre più lontani dal miraggio del potere vivere di questo lavoro. Tengo a precisare che questo è un lavoro che, fatto in un certo modo, chiede tante energie e l’investimento di molto tempo e cura, non può essere un hobby, o un secondo lavoro, chi lo fa seriamente lo sa bene.
Danza, teatro e musica: quale delle tre discipline le è più cara?
Tutte insieme. Ancora oggi io sono tutte queste cose insieme. La danza l’ho amata profondamente e me ne sono dovuta allontanare per un problema di salute dopo venti anni. Quando mi sono formata nelle arti dello spettacolo ho approfondito ogni forma espressiva. Lo stop dell’attività come danzatrice mi ha permesso di sperimentare ed approfondire gli altri contesti. Potrei dire che da una apparente “perdita”, si è manifestata una grande opportunità: non avrei mai scoperto di avere in me propensione alla composizione, non avrei mai pensato di scrivere canzoni. Forse sarei ancora oggi impegnata nel ballo, nel settore della coreografia, e mi sarei persa tutto il resto. Anche in questo caso posso parlare di un percorso in cui ho sperimentato pienamente una forma espressiva dopo l’altra, portando con me ciò che mi calzava maggiormente. Nei miei brani si respira il teatro, quello autentico, senza artifici e ridondanze. Nella mia comunicazione corporea si respira la danza. Negli spettacoli musica, canto, danza e teatro convivono, ed amo intensamente l’essenza di ogni canale espressivo che mi è congeniale per natura.
Quando e come è nata la sua collaborazione con il compositore Franco Tonso?
Ho conosciuto Franco appena rientrata in Piemonte. Dopo un trasferimento in Liguria fortemente compromesso dai pesanti anni tra il 2020 e il 2022, mi trovavo a dovere ricostruire tutto per l’ennesima volta. Avevo lasciato un Piemonte che, al mio ritorno, era notevolmente cambiato. Non è mai stato semplice trovare uno spazio artistico nella mia terra di origine, lo era ancor meno al mio ritorno. Non avevo più nessuno dei riferimenti di un tempo. Ho deciso di iniziare timidamente a cercare un pianista con cui potere preparare il mio repertorio, ed ho contattato diversi musicisti tra cui Franco. Con lui è nata una immediata sinergia ed abbiamo passato l’estate a costruire una proposta live piano/voce. Franco era particolarmente incuriosito dalle mie composizioni, lo divertiva confrontarcisi. La collaborazione è seguita in modo spontaneo. Quando ho ricevuto la proposta de La Stanza Nascosta Records, avevo già alcuni nuovi brani scritti, mi è venuto spontaneo chiedere a Franco di tradurre in chiave pianistica le mie composizioni. Franco ha sensibilità e creatività ed è riuscito a “vestire” i miei accordi in modo raffinato, trovando soluzioni perfette anche nei punti più complessi. Ed eccoci qui. In Aleph il suo piano convive meravigliosamente con le sonorità scelte da Salvatore, che è stato abilissimo a fare convivere due linguaggi apparentemente diversi.
<<“La quarta casa”- ha raccontato – è un brano che cerca in modo molto onesto e diretto di non edulcorare il rapporto genitori/figli, ma di presentarlo per quello che è, offrendone una visione inesplorata.>> Quali ritiene che siano gli aspetti inediti che il suo brano mette in luce?
In questo brano mi sono cimentata con un argomento universale, che ognuno di noi porta nel suo bagaglio di vita. Ho voluto però farlo con una visione molto poco considerata. Nella canzone italiana si parla molto di amore, mentre si parla di tanto in tanto del rapporto genitori/figli e lo si fa comunque sotto ottiche diverse. In questo pezzo non porto la mia storia personale per esorcizzare miei vissuti, piuttosto, metto in luce i punti che riguardano tutti noi, indipendentemente da quanto ne siamo consapevoli, cercando di darne una visione “evolutiva”. Questo è un pezzo che non avrei potuto scrivere in nessun altro momento, è arrivato in modo totalmente naturale.
La quarta casa vuole rilanciare l’importanza del tornare in contatto con le proprie radici, dalle quali noi tendiamo a scappare.
I nostri genitori sono i testimoni delle nostre radici perché ne sono l’ultimo anello, prima di noi, e sono stati loro stessi figli, con il loro dolori, i loro traumi, le loro difficoltà a stare nel mondo. Se guardiamo da questa prospettiva la nostra storia famigliare, il focus si sposta immediatamente e si capisce che non esistono vittime, non esistono carnefici. Ognuno agisce in base a quelle che sono le possibilità oggettive, e dà il meglio che gli è possibile. Non è un punto di vista che deresponsabilizza, anzi, è una esortazione ad andare dentro le proprie ferite, comprenderle, comprendere anche chi ci circonda e ciò che non è nostro, abbandonando il giudizio. È un processo che fornisce una ottica grandangolare e chiede accoglienza e una necessaria presa di responsabilità verso sé stessi, abdicando al ruolo di vittima e facendo pace con la nostra storia. Soltanto noi possiamo decidere di spezzare quella catena, lo si può fare solamente con un atto d’amore. Ecco che secondo questa prospettiva ho trovato più che mai calzante intitolare questo brano “La quarta casa”; quel settore del nostro “cielo” che, secondo le scienze astrologiche, rappresenta la famiglia di origine, i genitori, il contesto in cui si è vissuto, le influenze e le eredità che questi lasciano ad ognuno di noi. In senso più profondo, è un ambito che simboleggia la vita interiore, il centro dell’uomo e dei suoi sentimenti, tutto ciò che concorre a strutturarne la personalità.
Non esistono famiglie modello e famiglie difficili, a volte le ferite più profonde si nascondono nella storia di famiglie apparentemente felici. Come dico spesso, è la storia di tutti, la differenza sta soltanto nel volerlo vedere o meno.
La musica di Pamela Guglielmetti in tre aggettivi?
Faccio fatica a definire anche quella, ma se proprio devo: introspettiva, alchemica, autentica.
Ci sono delle cantautrici a suo avviso ancora “sommerse” che meriterebbero maggiore attenzione da parte della critica e del pubblico?
Non amo fare discorsi settoriali. Per mia esperienza posso testimoniare che da artista donna autonoma e che si è sempre auto-prodotta fino allo stremo, ho fatto una fatica indescrivibile. Sono stata penalizzata, ho rifiutato proposte che non mi rispettavano in quanto donna ed artista, seppur falsamente allettanti. Per conquistare ascolto e credibilità ho dovuto superare ostacoli giganteschi, e gli ostacoli non finiscono mai. Per le artiste donne è sicuramente più difficile, per le autrici ancora di più. Non serve che io citi i nomi, parlo a nome di tutte. Chi resta sepolto è chi non si fa abbagliare dalle lusinghe del sistema, che ha cose da dire, che fa questo mestiere perché lo ama con tutto sé stesso e non per apparire; chi mette l’anima in quello ce fa e ama donarla, quindi parlo anche per gli autori uomini.
Andrebbe riconsiderato l’intero approccio con il mondo autoriale. Gli autori sono stati cancellati, non siamo meno di prima, siamo semplicemente considerati meno, e non siamo sostenuti. Per fare l’autore oggi bisogna avere la fortuna di nascere in una famiglia facoltosa (e non è così comune), perché si va avanti totalmente sulle proprie forze. Il nostro paese ha letteralmente distrutto tutto quello che era una sua eccellenza, musica compresa. Ci sono autori stupendi, che non ce l’hanno fatta. Altri che ci stanno ancora provando, ma non dovrebbe funzionare così. Credo nel cambiamento, spero soltanto di poterlo vivere prima di essere costretta a desistere, come è accaduto a molti.
E’ già in programma una presentazione live di Aleph?
Sì, ci sarà una presentazione in prima nazionale domenica 5 novembre al Salone Internazionale del Vinile, della Radiofonia e del Collezionismo a Cuorgnè (TO) (un evento a cura dell’Associazione Disco Vintage). Sarò ospite nello spazio “Music talks” alle 10,30. Parleremo di Aleph e del mio lavoro artistico.
Parlando invece di “prima” live, sabato 18 novembre alle 21 ci sarà il concerto lancio, sempre a Cuorgnè (TO) e sempre curato da Disco Vintage. Sarò accompagnata da due grandi professionisti: Andrea Nejrotti e Gian Paolo Guercio, con la partecipazione del mio co – autore Franco Tonso. La formazione Nejrotti/Guercio è quella ufficiale anche per le date del tour.
Aleph come la raccolta di racconti di Jorge Luis Borges, Aleph come la prima lettera dell’alfabeto fenicio e come la prima lettera dell’alfabeto ebraico, Aleph come il numero zero, quello dal quale tutto prende forma e nel quale tutto trova la sua fine – si legge nella nota stampa, a cura di Verbatim Ufficio Stampa.
Ci racconta la gestazione di questo lavoro così complesso?
Non sono solita scrivere di tematiche che io non abbia affrontato nel mio percorso di vita. Scrivo di quello che conosco approfonditamente e che ha dato forti orientamenti alle mie trasformazioni personali, ma puntando su registri condivisi. Noi siamo un unico polmone in questa vita, i miei racconti sono le storie in cui ognuno può ritrovare parti di sé e del proprio vissuto, a volte conosciuto, a volte dimenticato. Raccolgo il vissuto mio e degli altri e lo trasformo in narrazioni che possano parlare a tutti. “Aleph” nasce in un mio ennesimo personale “punto zero”, che in modo frattale rispecchia il “punto zero” collettivo di questo tempo. La necessità impellente di trasformare il vissuto, spogliarsi di tutto ciò che non serve e proseguire il proprio cammino personale cercando la propria autenticità è il motore di questo lavoro. Le persone hanno bisogno come mai prima di ripartire da sé stesse in modo sincero ed andare alla ricerca di cosa potere scrivere su un nuovo quaderno bianco. E come mai prima è importante ritrovare sé stessi, per potere tornare davvero ad aprirsi ed unirsi agli altri. Finché non scopriamo noi stessi, finché non siamo in grado di amarci ed accoglierci nelle luci e nelle ombre, saremo esseri frammentati ognuno nel proprio dolore. L’Aleph insegna che ogni fine è un nuovo inizio, che non esiste separazione e che se si permette al mistero alchemico della vita di permearci, possiamo diventare alchimisti di noi stessi. Il mio Aleph è la ricerca di un raggio di sole e il desiderio di provare a mostrarlo.