“Gigantografia di piccoli sospiri” (Lilith Label) di Colbhi è un album dalle sonorità trasversali: il viaggio dell’ascoltatore si apre su paesaggi ampi e fitti, su altri rarefatti e spogli. L’elettronica avvolge un rock graffiante, caratteri dance seguono ballate intime. L’album contiene 10 tracce, nate a partire dalla brace di improvvisazioni, dialoghi sonori tra Osvaldo Loi, Federico Fantuz e Stefano Bolchi. Le musiche incontrano i testi di Daniela Bianchi e Stefano Bolchi, che in alcuni brani hanno intrecciato le loro parole. La produzione artistica si avvale della collaborazione con il produttore Giulio Gaietto che ha curato missaggio e mastering dell’album ed impresso la sua presenza al sound generale.
Ciao ragazzi e benvenuti su The Front Row. Come prima cosa presentateci la formazione della band e da dove venite.
Colbhi consiste in un progetto collettivo piuttosto che una band o un progetto solista. La produzione musicale è il risultato della condivisione delle visioni urgenti di alcuni soggetti. Nella fattispecie di Stefano Bolchi, Osvaldo Loi e Daniela Bianchi, genovesi, e, nella prima fase compositiva, di Federico Fantuz, musicista bolognese.
Parlateci un po’ del nome della vostra band: come nasce e che significato ha per voi?
Abbiamo discusso a lungo circa il nome da adottare. Abbiamo trovato più interessante partire dal suono della parola invece che dal senso o dal contenuto. Mi sono ricordato di quando, da ragazzini, ci si prendeva in giro giocando a mischiare le sillabe di nomi e cognomi. Quindi giocando con il suono. Io ero Colbhi.
Siete al lavoro su un nuovo album o lo state per pubblicare? Se sì, parlatecene un po’ altrimenti come descrivereste l’ultimo lavoro che avete realizzato e cosa possono aspettarsi gli ascoltatori dalle vostre canzoni?
L’album d’esordio è uscito da poco, questo fine aprile, e il titolo è “Gigantografia di piccoli sospiri”: abbiamo raccolto un po’ di emozioni sparse nel nostro quotidiano e le abbiamo tradotte in dieci canzoni influenzate dalle diversità musicali che ci portiamo dentro. L’album è stato anticipato dal singolo Dark ballad, un brano prodotto e cantato insieme a Paolo Benvegnù. Un ascoltatore può incontrare tratti che derivano dal rock di matrice anglosassone, influenzato dal pop, dall’ elettronica e dalla tradizione dei cantautori che amiamo.
Quale vostra canzone consigliereste a chi non vi ha mai sentiti?
Semmai potessimo rispondere tutti e 4 avreste quattro diverse risposte. La diversità complica le cose, ma appunto rende fede alla complessità. Siccome in questa intervista sono unico portavoce personalmente consiglierei Spigoli, la prima traccia dell’album. È un brano dai toni forti e porta con sé un messaggio diretto.
Qual è finora il momento più bello e/o importante da quando siete una band?
Un bel momento è stato comporre e suonare in mezzo alla natura insieme ai compagni. Poi un’emozione rimasta impressa è stata nel momento in cui ho ascoltato la prima volta il cantato di Paolo Benvegnù inserito in Dark ballad. Ho percepito intensamente un forte incontro e un valore aggiunto alla musica del brano.
Chi è il principale compositore del gruppo? Usate qualche metodo per assemblare tutte le idee che vi passano per la testa?
Il metodo che abbiamo utilizzato per comporre è stato quello della libera associazione sonora. Ci siamo incontrati io Osvaldo e Federico e abbiamo improvvisato per alcuni giorni. Poi abbiamo conservato e scelto le musiche più interessanti. In seguito, sono nati i primi testi alcuni scritti da Daniela, altri da me, altri ancora scritti a quattro mani in una girandola di interventi. Successivamente ci siamo dedicati all’arrangiamento e poi si è lavorato al sound con il produttore Giulio Gaietto. Per questo motivo è più coerente parlare di lavoro collettivo: nella discussione, nell’evoluzione dei pezzi arrivano momenti in cui non è più così chiaro chi ha messo cosa. Per quanto, tuttavia, a volte possa essere importante per ognuno del gruppo essere riconosciuto in ciò che ha dato e messo a disposizione, di cosa è genitore, alla fine ognuno di noi si è riconosciuto e allo stesso tempo si è sentito estraneo al risultato. Ecco, l’estraneità ha avuto ed ha un valore importante perché ti priva di un senso del possesso e ti permette di girovagare. Preciso che non intendo accostare l’estraneità alla libertà, anzi è un disagio che però apre delle impellenze: questo è un motore ma lo straniero difficilmente è comodo nei suoi panni.
Quant’è importante per voi l’attività live di una band e quant’è determinante secondo voi la presenza scenica e perchè?
Ci sono molti modi di fare musica. L’attività live per me è la pratica che permette di fornire la presenza corporea della musica prodotta. Nello stesso momento, attraverso il suono, vengono trasmesse aria e materia dal corpo dell’esecutore a quello dell’ascoltatore. Con la registrazione il messaggio avviene filtrato ed in differita.
Quanto conta secondo voi il look di una band al giorno d’oggi? Voi avete un vostro “dress code” oppure salite sul palco come capita?
Il look per me ha un valore esclusivamente estetico. È divertente giocare con la propria immagine. C’è chi ne ha fatto una cifra artistica. Ma attualmente mi sembra che l’immagine vada spesso ad influenzare o sostituire completamente la forma musicale. La musica è quasi un accessorio, uno strumento a servizio della immagine. Ci sono molti modi di fare musica.
Cosa possono aspettarsi i ragazzi che vengono ad assistere ad un vostro show?
Di essere avvolti e condotti in un viaggio. C’è un’intenzione quasi psichedelica di condurre la musica. Alla fine, è uno spettacolo che va ascoltato.
Meglio uscire per un’etichetta discografica (che sìa major o indie) o lasciare l’intera gestione della band in stile D.I.Y. e perchè?
Relativamente alla mia esperienza penso che si debba lavorare ad un progetto musicale insieme ed in sinergia con un’etichetta che crede, investe energie e mette in discussione. È quello che sta accadendo tra Colbhi e Lilith label, una realtà discografica fortemente animata da un senso etico e concreto.
Quanto vi hanno aiutato i social network come Myspace, Facebook, Twitter a farvi conoscere e quanto in generale questi strumenti possono aiutare un gruppo a farsi conoscere rischiando però di cadere nella marea di band emergenti che forse abusano di questi mezzi? A tal proposito, quali sono i vostri contatti sui social network?
Oggi giorno i social sono i canali di diffusione utilizzati, cerchiamo di trattarli come strumenti di aiuto, ma ci si rende conto che per svolgere questa operazione servono competenze di marketing più che artistico musicali. Questa è la relativa attualità, cioè è un sistema che va adesso, ma non è l’unico modo per comunicare. Ci potete trovare su https://www.facebook.com/Colbhi/ ed https://www.instagram.com/colbhi/
Se, fantasticando, poteste scegliere un producer con il quale lavorare, chi scegliereste?
Tra i tanti bravissimi sceglierei John Parish (musicista con PJ Harvey e produttore di Nada). Del suo lavoro mi affascina una grande capacità di essere essenziale ed estremamente espressivo allo stesso tempo, di andare all’osso.
E con quale musicista/gruppo realizzereste invece una canzone (o un remix) assieme?
Sempre fantasticando … realizzare un brano con Thom Yorke. Potrebbe essere qualcosa di mistico. Nella sua voce c’è qualcosa di inspiegabile e magnetico che attira.
Ultima cosa: lasciate un breve messaggio di saluto che possa anche convincere le persone ad ascoltarvi.
Nelle parole e nelle musiche di ogni canzone c’è qualcosa che può risuonare con le emozioni dell’ascoltatore. Posso dire che “Gigantografia di piccoli sospiri” di Colbhi è un disco che contiene ed esprime diverse emozioni.
Un ringraziamento particolare a Red&Blue – Relazioni musicali
Intervista di Carlo Vergani